Toni², Tony al quadrato
Amor ch’a nullo amato
...mormora ancora Dante negli Elisi
sabato 11 giugno 2011
«Amor, ch'a nullo amato amar perdona», mormora ancora Dante negli Elisi sorridendo quando vede scervellarsi esegetici ermeneuti critici dottori dilettanti e professori che cercano di diagnosticare interpretazioni scrivendo in calce «potrebbe anche star per questo, ma potrebbe anche voler dire questo». Voi per quale state? Per quella che vuole che l'amore, a nessuno che sia amato, «perdona» (sottrae, sconta, leva) il riamare? Quella cioè che dice che è impossibil non riamare essendo amati? O per quella in cui si legge come l'amore con la A maiuscola, quello cortese, non perdona d'amar liberamente se c'è il pregresso vincolo morale d'un matrimonio? O forse per quella, infine, di un amore che, seppur non ricambiato (a nullo amato), vive in sé del suo amare, senza bisogno d'esser corrisposto?
Detto che in un grande verso le interpretazioni confluiscono, non chiedono elite, mi divertii, tempo fa, a fare il gioco della torre: un signore mi disse che preferiva la terza, gli sembrava la più nobile; un altro mi rispose la seconda, gli sembrava la più rassicurante; un terzo mi rispose la prima, ché a tutti, davvero a tutti, sembrava la più romantica.
Ora gioco io: che sia impossibile non riamare essendo amati appare davvero un'idiozia. Così come sembra riduttivo depotenziare il verso nella sua morale tradita. E d'altra parte, se penso che il seguito del verso è «mi prese del costui piacer sì forte», pur sembrandomi la più bella l'esegesi di un amar più forte del suo non esser corrisposto, forse non è la più appropriata. Come uscirne? Francesca parla di «piacere». E se ricucissimo la ferita tutta moderna fra attrazione fisica e sentimento? E se sottraessimo all'ottusa eredità romantica il suo carico metafisico, soave, platonico?
Non è Eros, forse, quello che nella sua mitologica convergenza di cuore e carne, di sensi ed estasi, di tormento e felicità, di ormoni e senso del destino, evoca il desiderio della donna? E allora non è ovvio come sia impossibil non riamare essendo amati se, nella fatalità del reciproco, siano il piacere, l'attrazione, il desiderio, a darsi come cellule d'amore?
Detto che in un grande verso le interpretazioni confluiscono, non chiedono elite, mi divertii, tempo fa, a fare il gioco della torre: un signore mi disse che preferiva la terza, gli sembrava la più nobile; un altro mi rispose la seconda, gli sembrava la più rassicurante; un terzo mi rispose la prima, ché a tutti, davvero a tutti, sembrava la più romantica.
Ora gioco io: che sia impossibile non riamare essendo amati appare davvero un'idiozia. Così come sembra riduttivo depotenziare il verso nella sua morale tradita. E d'altra parte, se penso che il seguito del verso è «mi prese del costui piacer sì forte», pur sembrandomi la più bella l'esegesi di un amar più forte del suo non esser corrisposto, forse non è la più appropriata. Come uscirne? Francesca parla di «piacere». E se ricucissimo la ferita tutta moderna fra attrazione fisica e sentimento? E se sottraessimo all'ottusa eredità romantica il suo carico metafisico, soave, platonico?
Non è Eros, forse, quello che nella sua mitologica convergenza di cuore e carne, di sensi ed estasi, di tormento e felicità, di ormoni e senso del destino, evoca il desiderio della donna? E allora non è ovvio come sia impossibil non riamare essendo amati se, nella fatalità del reciproco, siano il piacere, l'attrazione, il desiderio, a darsi come cellule d'amore?