Toni², Tony al quadrato
La prima luce
Era tremendo, non ci riuscivo più...
sabato 7 maggio 2011
Era tremendo, non ci riuscivo più. Andai dal ferramenta, comprai una scala, gli chiesi se ce l'aveva alta non tre metri, ma trecento. «Per cosa?» mi chiese sbigottito. «Materia per un sogno», gli risposi io. Non ce l'aveva.
Non potevo più sognare, non riuscivo a sognare: era vero, mi fu diagnosticato, necrosi dei tessuti aurei della corteccia. Mi ritrovai a compiere una passeggiata, entrai in un negozio per comprare delle scarpe, sedevo alto sopra una tribuna per assistere ad un match di tennis. Poco dopo stavo sorseggiando un bevanda fredda mentre mio fratello faceva le valige per andare a far pasquetta. Io telefonavo all'assessore mentre il semaforo si trasformava rosso dopo che era stato solo per un poco giallo. Aprivo la porta dell'androne, e dall'ufficio, al telefono, guardavo il monitor cambiar colore fra tabelle ed algoritmi.
Entrava chiunque, s'andava al molo a mangiare, ero contento, le mie figlie con mia moglie sorridevano e poco dopo, davanti a un film profondo, compivamo riflessioni amare e belle. Ma passeggiavo perché la strada diventasse all'improvviso un muro; ed entravo in un negozio sperando che le scarpe contenessero animali; guardavo viaggiare la pallina cercando di veder qualcuno che palleggiava con se stesso, e nella bevanda fredda avrei tanto voluto che ci fosse una cannuccia simile al bastone di mio nonno mentre rincorreva mio fratello che metteva nella mia valigia la mia prima fidanzata. Materia per sognare, questo ricercavo: niente!
Quanto avrei voluto che l'assessore e quel semaforo convolassero a nozze, e mentre uscivo dal palazzo speravo che il portone fosse alto come l'edificio intero per poter veder da fuori mille sosia far la stessa cosa! Guardavo dentro il monitor perché i numeri si trasformassero all'improvviso nella gola di bambino quando mi dissero: «Tonsille». Con le dita incrociate sotto la scrivania mi illudevo di veder entrare un numero, sempre lo stesso, a voler parlar d'affari. Niente, niente, niente: niente sogni!
Le mie figlie sorridevano non perché papà avesse ancora addosso il pannolino, e non si trasformava, non si trasformava in uno specchio il film tremendo che guardavo. E mentre parlavano i colleghi fra un carpaccio e l'altro, io, distratto, agognavo di vedere in fondo al molo un piccolo cancello, con mia madre, dietro, giovane, bellissima, che non riusciva a scavalcarlo. Ero condannato: non so chi fossero, ma urlandomelo in faccia mi dicevano: «I sogni son finiti».
Sudato, le lenzuola assai bagnate, mi svegliai: un filo di luce entrava dentro il letto, e mia moglie, dalla cucina, preparava il suo caffè.
Non potevo più sognare, non riuscivo a sognare: era vero, mi fu diagnosticato, necrosi dei tessuti aurei della corteccia. Mi ritrovai a compiere una passeggiata, entrai in un negozio per comprare delle scarpe, sedevo alto sopra una tribuna per assistere ad un match di tennis. Poco dopo stavo sorseggiando un bevanda fredda mentre mio fratello faceva le valige per andare a far pasquetta. Io telefonavo all'assessore mentre il semaforo si trasformava rosso dopo che era stato solo per un poco giallo. Aprivo la porta dell'androne, e dall'ufficio, al telefono, guardavo il monitor cambiar colore fra tabelle ed algoritmi.
Entrava chiunque, s'andava al molo a mangiare, ero contento, le mie figlie con mia moglie sorridevano e poco dopo, davanti a un film profondo, compivamo riflessioni amare e belle. Ma passeggiavo perché la strada diventasse all'improvviso un muro; ed entravo in un negozio sperando che le scarpe contenessero animali; guardavo viaggiare la pallina cercando di veder qualcuno che palleggiava con se stesso, e nella bevanda fredda avrei tanto voluto che ci fosse una cannuccia simile al bastone di mio nonno mentre rincorreva mio fratello che metteva nella mia valigia la mia prima fidanzata. Materia per sognare, questo ricercavo: niente!
Quanto avrei voluto che l'assessore e quel semaforo convolassero a nozze, e mentre uscivo dal palazzo speravo che il portone fosse alto come l'edificio intero per poter veder da fuori mille sosia far la stessa cosa! Guardavo dentro il monitor perché i numeri si trasformassero all'improvviso nella gola di bambino quando mi dissero: «Tonsille». Con le dita incrociate sotto la scrivania mi illudevo di veder entrare un numero, sempre lo stesso, a voler parlar d'affari. Niente, niente, niente: niente sogni!
Le mie figlie sorridevano non perché papà avesse ancora addosso il pannolino, e non si trasformava, non si trasformava in uno specchio il film tremendo che guardavo. E mentre parlavano i colleghi fra un carpaccio e l'altro, io, distratto, agognavo di vedere in fondo al molo un piccolo cancello, con mia madre, dietro, giovane, bellissima, che non riusciva a scavalcarlo. Ero condannato: non so chi fossero, ma urlandomelo in faccia mi dicevano: «I sogni son finiti».
Sudato, le lenzuola assai bagnate, mi svegliai: un filo di luce entrava dentro il letto, e mia moglie, dalla cucina, preparava il suo caffè.