Pop Corn

Il western pop di Quentin Tarantino

"Django Unchained", una leggenda moderna tra spaghetti e splatter

Epicamente scorretto, a metà strada fra la tradizione italiana dello spaghetti western e la narrazione pop del miglior Tarantino. "Django Unchained" è l'ultima fatica del regista più amato e più odiato del cinema contemporaneo, quel Quentin Tarantino che dallo storico "Pulp Fiction" ci ha viziato col suo gusto per il citazionismo cinefilo, per gli esperimenti visivi e i dialoghi al limite del paradossale. Con questa prova torna ad uno dei suoi primi amori, il western dei grani maestri italiani, e lo rovescia in modo quasi dissacratorio. Eroe moderno come il Siegfried della mitologia tedesca, Django (Jamie Foxx) è uno schiavo nell'America ante guerra civile, che da servo diviene uomo libero e cacciatore di taglie al fianco dell'elegante King Shultz (Christoph Waltz), per compiere la sua vendetta nei confronti del mefistofelico villain Calvin Candy (Leonardo Di Caprio), eccentrico e brutale proprietario di piantagioni del Sud, e liberare sua moglie, la giovane schiava Broomhilda, alle dipendenze di Candy.

Sulle note di Ennio Morricone, Luis Bacalov e del "Dies Irae" di Verdi, il grande maestro di "Kill Bill" riprende la polvere e gli spari del western per creare un mito nuovo, un po' pop e un po' pulp: lo schiavo liberato che con l'arte della drammaturgia si finge negriero per inseguire e liberare il suo unico e grande amore, senza pietà e senza compromessi, osservando la bestialità sanguinaria dello schiavismo di cui egli stesso, insieme a sua moglie, sono vittime. Il suo mentore King Shultz, raffinato cacciatore di taglie dal cuore buono e antischiavista, è il personaggio più tarantiniano del coro: le sue orazioni sono stringenti e convincenti, il suo aplomb è perfetto, la sua recitazione è ricercata, sino alla sua inevitabile sconfitta, vero turning point della trama. Shultz e Django sono due eroi delle parole contro il cattivissimo Candy, potente nella sua ricca materialità, capace di sofisticata eleganza e di sardonica violenza.

Non il miglior Tarantino, né il più originale, ma sicuramente una pellicola che – nonostante l'iperbolica durata di 165 minuti – scorre fluidamente senza pause e senza noie. Con le sue citazioni per veri cinefili e i suoi altissimi momenti di humour quasi caricaturale, "Django Unchained" è una inedita rilettura della storia americana, della lotta tra Vecchio e Nuovo Continente, con chiare e profonde riflessioni sulla realtà socio-politica dei giorni nostri, e sopratutto sul senso della vera libertà: nonostante la forma di favola amara fuori dal tempo, la pellicola di Tarantino nasconde in realtà una critica alla violenza e alla sottomissione umana, sotto la coltre spessa e irrinunciabile di un sarcasmo irriverente e di un epico splatter. Scorretto, ma dannatamente godibile.
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