Apatheia

Pioveva a dirotto

Io non morirò mai figlio mio

Era un pomeriggio di ottobre, pioveva a dirotto e la pioggia scrosciante picchiava sui vetri della camera da letto suonando come sopra un tamburello con sonagli. Era uno di quei temporali autunnali che in un attimo rinfrescano l'aria pervadendola di odori sonnolenti, di terra e di mosto, quei temporali che oscurano il cielo rendendo l'atmosfera plumbea benché le giornate si fossero già accorciate velocemente e il sole, alle sedici, fosse già rosso d'imbrunire. Con mio figlio di sei anni giocavo sul lettone, circondato da una decina di pupazzi di peluche, a fare le missioni segrete sotto le lenzuola. È un gioco che ormai non tanto gradisce ma che io gli propongo insistentemente, è un vecchio stratagemma, così me lo posso abbracciare e strapazzare, lui lo sa ma mi lascia fare, almeno per ora. Improvvisamente veniamo abbagliati da un fulmine che illumina la stanza come se fosse giorno, luce seguita subito dal fragore dirompente di un tuono. Siamo usciti dalla caverna di lenzuola e ci siamo fermati a guardare la pioggia che intanto diventava tanto fitta da sembrare nebbia. Quella campagna fumosa, quegli alberi rinsecchiti e spogli, quei palazzi lontani, appannati e sfocati dietro i vetri, quel cielo oscurato dalle nuvole, ci facevano sentire l'aria fredda anche nella stanza, tanto da lasciarci in silenzio per qualche minuto. Ho cercato la mano di mio figlio e gliel'ho stretta, aveva l'aria pensosa allora gli ho chiesto cosa stesse pensando. Ha risposto che pensava al nonno, mio padre, morto da quattro anni e, benché mio figlio avesse solo un anno e mezzo, lo ricorda ancora bene, ricorda le parole che gli diceva, le storie che gli raccontava. Gli ho chiesto perché la pioggia gli facesse venire in mente il nonno e lui mi ha risposto, con l'aria di chi risponde con una risposta ovvia ad una domanda ovvia, che quel paesaggio piovoso, quel cielo nero, quella strada vuota, erano tristi e quindi gli facessero venire in mente cose tristi.

Ho fatto l'impossibile per tenere mio figlio lontano dall'idea della morte che io vivo quotidianamente a causa del mio lavoro, che adoro, ma purtroppo negli ultimi quattro anni abbiamo avuto parecchie perdite, persone a cui lui era molto legato e per questo, forse, ha cominciato a temere che la morte potesse rubargli altri suoi cari. Continuando a guardare la pioggia che nel frattempo aveva allentato la morsa, mi dice: «Papà io non potrei mai sopportare che tu un giorno possa morire» allora gli risposto subito con un'espressione serena ma nel frattempo sicura, senza ombra di dubbi: «Io non morirò mai». È rimasto in silenzio a guardarmi mentre io, fingendo di non avvedermene, continuavo ad osservare la pioggia, maledicendola per quei discorsi che ci stava facendo fare. Mi chiedevo cosa stesse pensando, se si rendesse conto che la mia fosse una sfacciata bugia e, se si fosse reso conto, come si spiegasse la mia insolenza nell'avergliela detta. «Non ti credo e vedrai, quando morirai, ti riempirò di botte per questa bugia» mi ha detto con tono minaccioso. «Vedremo, te le darò io le botte» gli ho risposto e mi sono lanciato addosso cominciando un incontro di lotta libera durato per mezzora, giusto il tempo di non pensare più a quella maledetta pioggia.

Dopo, stanco ma soddisfatto e con qualche graffio, ho pensato che sicuramente non potrò mantenere la promessa fatta a mio figlio di vivere in eterno, un'impavida promessa fatta in un maledetto giorno di pioggia, ma so di avergli fatto anche la promessa che gli lascerò un mondo migliore, un mondo non fatto solo di uomini chiusi nell'egoismo e nell'indifferenza. Quella promessa sì, ho pensato, possiamo e dobbiamo usare tutta la nostra forza e le nostre capacità per mantenerla e per realizzarla.
Apatheia

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La rubrica di Rino Negrogno

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