Toni², Tony al quadrato
Eutanasia di un sogno
Avevamo deciso di staccar la spina...
venerdì 25 febbraio 2011
Avevamo deciso di staccar la spina: la malattia non la faceva solamente soffrire, ma non le faceva capir nulla, l'aveva resa incapace d'intendere. E se c'è un solo buon motivo per lasciare a un moribondo la libertà di vedere com'è fatta per davvero la morte, di come è fatta per davvero cioè la vita, questa sta solamente nella sua lucidità.
Il sogno stava svanendo: avevamo davanti, io e tutti i miei fratelli, le sue foto da ragazza: era bellissima, alta, castana. Si prometteva eternamente giovane. Era nostra sorella. Invecchiata, d'improvviso, più vecchia di Matusalemme, più deforme di una strega, più cieca di una bambola. Non ci mettemmo molto, dopo esserci guardati dentro gli occhi, per reciderle ciò che le rimaneva per esser definita viva. Viva, non lo era più da tempo, anche prima che si conclamasse la sua malattia.
Cominciammo a odiarla come si odia una fantasia che si trasforma in numero, un'immaginazione che si trasforma in calcolo, un sogno che si trasforma in logica. Si dovevano avvicinare solamente un pollice ed un indice, stringer fra di loro una scatola plastificata, e far fare al proprio braccio un secco moto indietro: sarebbe sorto il sole, in quell'istante, sull'evidenza del suo buio. Solo abbandonandola alla fine, solo fuggendo da quella pesante camera, solo mettendo un coperchio di piombo alla sua tomba, avremmo liberato il nostro, di sarcofago. E, non più ciechi, già mentre scendevamo le scale di quell'ospedale, ci si dimenticò di lei. Chiamammo eutanasia, il respiro di quella discesa. Che cambiò la nostra vita. Ma ogni nascita, adesso che ci penso, dovrebbe avere un diverso nome dalla morte. Perché quando quella donna nacque, scritta nei miei occhi di fratello, si chiamava sogno. Da morta, sulla lapide presente dietro ai nostri cuori, è scritto il suo contrario: è scritto politica.
Il sogno stava svanendo: avevamo davanti, io e tutti i miei fratelli, le sue foto da ragazza: era bellissima, alta, castana. Si prometteva eternamente giovane. Era nostra sorella. Invecchiata, d'improvviso, più vecchia di Matusalemme, più deforme di una strega, più cieca di una bambola. Non ci mettemmo molto, dopo esserci guardati dentro gli occhi, per reciderle ciò che le rimaneva per esser definita viva. Viva, non lo era più da tempo, anche prima che si conclamasse la sua malattia.
Cominciammo a odiarla come si odia una fantasia che si trasforma in numero, un'immaginazione che si trasforma in calcolo, un sogno che si trasforma in logica. Si dovevano avvicinare solamente un pollice ed un indice, stringer fra di loro una scatola plastificata, e far fare al proprio braccio un secco moto indietro: sarebbe sorto il sole, in quell'istante, sull'evidenza del suo buio. Solo abbandonandola alla fine, solo fuggendo da quella pesante camera, solo mettendo un coperchio di piombo alla sua tomba, avremmo liberato il nostro, di sarcofago. E, non più ciechi, già mentre scendevamo le scale di quell'ospedale, ci si dimenticò di lei. Chiamammo eutanasia, il respiro di quella discesa. Che cambiò la nostra vita. Ma ogni nascita, adesso che ci penso, dovrebbe avere un diverso nome dalla morte. Perché quando quella donna nacque, scritta nei miei occhi di fratello, si chiamava sogno. Da morta, sulla lapide presente dietro ai nostri cuori, è scritto il suo contrario: è scritto politica.