Vita di città

Come ti riconverto l’immobile comunale

Dalla beauty farm al Monastero al ristorante a Sant’Antuono

L'eco della provocazione dell'assessore D'Ambrosio rimbomba ancora, non soltanto negli ambienti politici. L'idea di dare in gestione a privati il Monastero e, magari, di riconvertirlo a beauty farm, avrebbe creato notevole disappunto anche negli eminenti ambienti ecclesiastici.

Un precedente fra le parti già c'è, al tempo in cui D'Ambrosio organizzò, con la sua associazione, un casinò di beneficenza allo Sporting che tanto fece arrabbiare la Curia. Ma non è questo il punto. L'assessore D'Ambrosio, con una gran dose di coraggio e di "sana follia", si è assunto la paternità di un'idea-provocazione (chiamatela voi come vi pare) sul destino del nostro Monastero.

Dobbiamo dire che, una così chiara, coraggiosa e lampante paternità, non si riesce ad individuare per quanto concerne la decisione di riconvertire in ristorante l'area del Fortino dove è presente la Chiesa di Sant'Antuono. Abbiamo girato e rigirato tutti gli uffici comunali per cercare un atto di indirizzo, un documento giuntale (o comunque di natura politica), che legittimasse, a firma di qualcuno, la decisione di trasformare un immobile comunale di notevole pregio artistico e storico in uno dei ristoranti più glam della zona.

Ebbene, nel corso della ricerca - per altro difficoltosa - abbiamo scovato una delibera di giunta (mai revocata) in cui si dice che quei locali, dati in gestione tre anni fa, dovevano essere utilizzati per celebrare i matrimoni. Da celebrare i matrimoni ad, eventualmente, festeggiarli, ce ne passa. Sempre cercando tra le carte, abbiamo trovato una successiva delibera di giunta in cui si dà mandato al dirigente di ripartizione del tempo (anno 2005) di studiare la soluzione più vantaggiosa per il Comune.

E nacque così l'idea ristorante, sulla quale l'amministrazione - intesa come organo politico - non si è mai espressa, dimenticandosi anche di correggere il tiro su quanto deliberato in passato. La curiosità ci ha spinto anche a rivedere il bando di aggiudicazione, all'epoca criticato da alcuni consiglieri comunali.

Ed anche qui, qualche considerazione andrebbe fatta, in particolare su quanto previsto dal capitolato d'oneri che prevedeva in sei mesi il termine di ultimazione dei lavori ed in sette il termine massimo per avviare l'attività. Dalla data di consegna della struttura, di anni, però, ne son passati diversi, senza che nessuno abbia mai detto "ma". Il ritardo nell'apertura - a dire il vero - non può sorprenderci, considerando la gran mole di lavori che andavano fatti all'interno e all'esterno del luogo (fogna, corrente, restauri e quant'altro). L'oggettiva impossibilità di aprire nei sette mesi previsti dal capitolato, rappresenta probabilmente, il motivo che ha scoraggiato tutti gli imprenditori a partecipare alla gara per la concessione, ad eccezione di un'unica società che, molto coraggiosamente ha intrapreso l'impresa che ha visto la luce nelle scorse settimane.
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